domenica 11 aprile 2010

Il maremoto per i mapuche - La furia di Kay Kay


"Molta gente ride di queste cose, dice 'sono storie di indios' ma hanno una grande verità" sottolinea Marihuan. E' questa verità quella che un contadino mapuche ha comprovato la notte del 27 febbraio quando, dalla collina dove si trova la sua casa, ha sentito che Tren Tren avvertiva i suoi di un grande pericolo: Kay Kay, il serpente signore dei mari, si stava svegliando."

articolo di Pedro Cayuqueo - Temuko, Wallmapu (territorio mapuche) - 07.04.10
fonte: Azkintuwe.org

Un grande cataclisma segna l'origine del mondo e marca la vita mapuche. Il mitico racconto "Tren Tren e Kay Kay" si riferisce ad una grande inondazione che colpì la terra e che, secondo le credenze, tornerà a ripetersi se i mapuche abbandonano la loro cultura e la particolare relazione di rispetto verso la terra. "Lì nel mare, nel più profondo, viveva un grande serpente che si chiamava Kay kay, una weza newen o forza negativa, dello squilibrio e del caos. I mari obbedivano agli ordini di un serpente ed un giorno iniziarono a ricoprire tutta la terra. Si chiamava Tren Tren e consigliò i mapuche di salire sulle colline quando le acque iniziarono a crescere. Così come i mari ricoprivano la terra, le colline iniziarono a crescere. Quando Kay Kay non ebbe più altra acqua disponibile, la battaglia tra le due forze terminò. Molti mapuche non riuscirono a salire sulle colline e si trasformarono in shumpall. Alla fine si salvarono solo 4 persone, una coppia di anziani: Kuse (anziana), Fucha (anziano), ed una coppia di giovani: Ulcha (donna giovane) e Weche (uomo giovane). Gli anziani trasmisero la loro saggezza ai giovani e questi a loro volta ai figli, che popolarono la terra una volta che le acque si ritirarono e l'equilibrio venne ristabilito".
Il racconto varia a seconda del narratore, ma il sottofondo è lo stesso. "Da bambino ci viene detto questo epew (cuento), per insegnarci a non dimenticare da dove veniamo e qual è il nostro luogo in questo mondo. Siamo figli della terra e ad essa dobbiamo gratitudine e rispetto" segnala Rogelio Marihuan, mapuche del settore di Piedra Alta, nel comune di Tirúa. Rogelio ha ascoltato il mito dalla bocca di suo nonno e l'ha trasmesso più tardi ai suoi 3 figli piccoli. Riconosce che ogni giorno sempre meno gente lo conosce e che difficilmente un qualche giorno sarà insegnato nelle scuole. "Molti ridono di queste cose. Dicono 'sono storie di indios', ma hanno una grande verità", sottolinea Marihuan. E' una verità che questo contadino mapuche ha comprovato la notte del 27 febbraio, quando dalla collina in cui si trova la sua casa sentì come Tren Tren allertasse di nuovo i suoi di un grande pericolo: Kay Kay, il serpente signore dei mari, si stava svegliando.
Il maremoto che ha colpito la costa del Wallmapu, per mapuche come Rogelio, non è il mero capriccio di placche tettoniche che scorrono, da registrare in scale Richter o Mercalli. Costituiscono piuttosto segnali o avvertimenti, avvisi che gli equilibri tra le forze creatrici del mondo mapuche -risultato di quella battaglia originale raccontata nel mito- iniziano a vacillare. Per questo quella notte, mentre 3 grandi ondate distruggevano i pochi chilometri dalla sua casa e l'isola Mocha e la località costiera di Tirúa, Rogelio ha riunito tutta la sua famiglia e s'è incamminato verso i settori più alti. Non è stato l'unico. Al suo fianco, illuminati dalla luna piena, decine di contadini e di pescatori mapuche-lafkenche, membri della sua comunità, facevano lo stesso. Nessuno aveva con sé beni materiali. Una volta in cima e con la silhouette dell'isola Mocha illuminata dala luna alle loro spalle, hanno dato il via ad una preghiera tradizionale. Al suono dei kultrun e della pifilka, Rogelio ed i suoi hanno danzato ed hanno donato alimenti come offerta alle ngen (forze) della terra fino a che il sole ha illuminato il disastro da lontano. Tirúa, lo storico comune amministrato da una serie di sindaci mapuche, era praticamente in rovina. Responsabili del disastro erano state le tre gigantesche ondate che, tra le 4 e le 6 della mattina di quel fatidico giorno, hanno devastato il paese dalla foce del fiume, distruggendo letteralmente tutto al loro passaggio, incluso l'edificio del comune, una piazzetta cerimoniale orgoglio delle comunità della zona, ed un settore di almeno 3-400 metri di case e locali commerciali.
Sono state decine le comunità mapuche che dopo il maremoto hanno tenuto dei nguillatunes. Sebbene le più colpite siano state le zone del lafkenmapu (settore costiero del País Mapuche), in tutto il territorio si sono tenute delle cerimonie per placare la furia di Kay Kay. "In generale, la gente mapuche della costa s'è rifugiata spiritualmente nello stesso mare in quanto è lo stesso ngenlafken ad esser consultato su quel che verrà. Per esempio molta gente, una volta terminate le scosse, all'alba s'è diretta alle colline vicine al mare o sulla stessa riva per effettuare delle offerte e per recitare dei llellipun, per chiedere a Mankian ed al NgenLafken, che cosa stava per accadere... sia a livello individuale che familiare. In seguito a livello collettivo, molte comunità o rewe, comunità aggruppate, si sono riunite ed hanno realizzato la cerimonia del lefkontupurun, che corrisponde alla preghiera comunitaria quando ci sono situazioni complesse o tristi" segnala Jaqueline Caniguan, poetessa e linguista di Puerto Saavedra. Figlia di una nota machi del territorio lafkenche, Caniguan ha vissuto il terremoto assieme alla sua famiglia nel settore La Caleta. Lì, si trova la sua casa. Ai piedi del monte Wilke. A sole poche centinaia di metri dalla spiaggia.
Paradossalmente, i danni provocati dalle tre grandi ondate a Saavedra sono stati minimi, a differenza del maremoto del 1960 che distrusse completamente la città-porto, costringendo la successiva ricostruzione sulle colline. Jaqueline non vide quel che accadde allora, ma sì Margarita, la madre scomparsa. E' stata lei ad insegnarle che la terra avverte sempre i suoi figli sul pericolo imminente. "Lei mi diceva: la natura avvisa sempre, ci sono segni che vengono attraverso il pewma, i sogni, ed altri che uno può identificare nella stessa natura, per esempio lo zampillo delle acque e quel che accade con i pesci" ci dice. "Chi s'è ricordato della grande mortalità tra i pesci avvenuta tempo fa a Queule?" si domanda Jaqueline. "O i sogni sconvolti che abbiamo avuto le settimane precedenti?... Va bé, una buona scossa serve magari per tornare alla scienza dei nostri popoli originari. In questi giorni abbiamo visto che manca la luce, che i cellulari non funzionano, nulla... Allora, bisognerà ricorrere all'uso degli aliwen per trasmettere messaggi, vedere se i ruscelli zampillano o se i pozzi si seccano rapidamente, ascoltare di più l'abbaiare dei cani e tutte quelle cose che vengono definite superstizioni, ma che sappiamo che in passato corrispondevano a serie osservazioni, effettivamente scientifiche" sottolinea.
Per Jaqueline, il terremoto ed il successivo tsunami hanno lasciato una grande lezione. "Ho ascoltato quel che i vecchietti stanno dicendo nelle loro preghiere ed una delle cose che mi ha più colpito è quando essi dicono 'che questo terremoto faccia tremare i nostri cuori, affinché apprendiamo ad ascoltare con il cuore, con il pensiero, con la testa'... Oggi, noi mapuche non sappiamo "vedere" i segnali che si manifestano nella stessa natura. Sarà sempre così! La terra si manifesta inviando segnali che se si sanno interpretare, evitano che accadano catastrofi... La terra è molto saggia, se crediamo nel concetto di una madre, allora le madri sempre avvisano i propri figli, in modo che non soffrano. Ma in questa occasione è avvenuto che noi figli siamo sordi ed abbiamo perso la capacità di 'andare più in là', di 'leggere la natura'. I vecchi mapuche erano dei veri scienziati che potevano leggere con precisione queste azioni della natura, per questo hanno ordinato il tempo ed i suoi dettagli, stabilendo la rotondità della terra molto prima che in Europa, hanno identificato i cicli della terra, le sue stagioni, ecc... siamo noi, le nuove generazioni, che stiamo rimanendo ciechi di fronte a tutto ciò" si lamenta Caniguan.
Dopo il maremoto del 1960, il più devastante da quando ne vengono registrati nel pianeta, le comunità non solo organizzarono nguillatunes e preghiere. Ci fu anche un polemico sacrificio umano che molta gente oggi collega ad una leggenda locale. Ma il sacrificio ha avuto luogo. Avvenne la sera del 22 maggio, un giorno dopo il fatidico maremoto che distrusse il porto fluviale di Valdivia. Quella sera José, un bambino di 5 anni, con l'autorizzazione di suo padre, venne sacrificato dalla machi Luisa María Namuncura e venne lanciato nelle settore di Collileufu. Alcuni dicono che venne lanciato intero, altri che lo smembrarono. Quel che è certo è che il cadavere non venne mai trovato. La machi, assieme a sua sorella Juana, al nonno del minore, Juan José Namuncura Paiñao e Juan Paiñao, che avrebbe lanciato il bambino al mare, furono in seguito arrestati e condannati dalla giustizia cilena. La sentenza venne dettata dall'allora giudice sostituto Ricardo Aylwin, cugino dell'ex primo presidente della repubblica della Concertación. Il caso assunse rapidamente un rilievo internazionale. A studiarlo intervenne addirittura lo scomparso Instituto Indigenista Interamericano, con sede in Messico. Intanto, la Corte Suprema de Justicia nominò in quegli anni una commissione di antropologi, composta tra gli altri dal saggio lituano Alejandro Lipschutz in modo che analizzassero il fatto e redigessero una perizia.
La conclusione alla quale si giunse fu che il sacrificio del bambino obbediva ad una pratica culturale. Assolutamente estrema, ma comunque culturale. E' che nella cosmovisione mapuche più è grave l'azione verso l'essere umano, più grande dev'essere il sacrificio per ristabilire l'equilibrio rotto tra le forze in campo. Così scrissero i ricercatori e così venne accettato dalle autorità dell'epoca. Per via di quella perizia, la machi fu liberata dalle responsabilità e con lei le altre persone che avevano partecipato al rito. Ciò nonostante trascorsero lunghi anni nel carcere di Imperial prima di esser scarcerati. Si racconta che, fino al giorno della sua morte, la machi non intese mai perché la giustizia li accusasse di assassinio; ed i suoi vicini, gli abitanti di Saavedra, di praticare la stregoneria. Jaqueline ha conosciuto questa storia dalla bocca di sua madre. E la ricorda con profonda tristezza. "quel sacrificio è presente nella memoria collettiva della zona di Budi. Venne realizzato da una machi che sognò di doverlo fare. Molti mapuche non reagirono favorevolmente a quell'azione. Fino ad oggi scatena polemiche. A livello personale mi provoca una gran tristezza, perché conosco le canzoni che raccontano la storia e sono molto tristi, perché in esse si racconta come il piccolo che fu sacrificato pregasse di non esser ucciso. Per me è un ricordo doloroso" conclude.

* Reportage originariamente pubblicato sulla rivista Punto Final / www.puntofinal.cl

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